di Marella Narmucci
Chi tra noi non ha mai avuto la necessità di un lavoro è una persona fortunata.
Chi non ha mai avuto il bisogno di trovarlo in breve tempo lo è ancora di più.
L’urgenza di lavorare per disporre di un reddito fa sprofondare ogni essere umano in una condizione di ansia e di incertezza continua, durante la quale lo stato d’animo vacilla tra alti e bassi repentini e frustranti.
La necessità di doversi collocare velocemente, senza poter scegliere, porta le persone ad accontentarsi di lavori poco gratificanti sia come mansioni sia come retribuzioni, e a dover sottostare spesso a condizioni inaccettabili che, con la giusta serenità, mai penserebbero di accettare, o meglio, subire.
Giovani e meno giovani condividono condizioni oggettive e relativi sentimenti che li rendono vulnerabili, gettando i primi nella paura di vedere annullate le possibilità di condurre un’esistenza e una vita autonoma fino a quel momento faticosamente conquistata, gli altri nel terrore di non avere più opportunità lavorative, di essere considerati obsoleti dal mondo produttivo, nonostante una vita avviata, una famiglia da mantenere, finanziamenti e mutui da pagare e con ancora un lungo percorso davanti prima del raggiungimento del diritto alla pensione. Ed entrambi gli appartenenti alle due categorie, in queste fasi della loro vita, sono anche privati (a volte inconsapevolmente) di una parte di quella piccola porzione di libertà che ognuno di loro si è conquistato: poter rappresentare ed essere sé stessi.
Già, perché nel momento in cui si cerca lavoro, si inviano proposte di collaborazione e ci si rimette sul “mercato”, le attenzioni che si devono avere sono tantissime. Il minimo errore di forma, di presentazione, di segnalazione sul proprio cv, di commento personale sui social, poco gradito a chi un impiego può darlo, compromette irrecuperabilmente la possibilità di essere preso in considerazione e per questo ci si conforma, autocensurandosi e diventando impersonali.
E’ successo anche a me nell’ambito del Parlamento italiano, dove i collaboratori a ogni nuova legislatura hanno bisogno di cercare un diverso datore di lavoro, senza aver avuto alcuna “colpa” lavorativa, ma semplicemente perché il precedente non è più rappresentante del popolo.
Faccio un esempio per spiegare concretamente. Rispondendo a una mia richiesta di lavoro, c’è stato chi – senza aver avuto la sensibilità necessaria per comprendere che dietro le parole di presentazione ci fosse una persona reale in difficoltà – si è sentito “offeso” perché il messaggio di posta elettronica non era “personalizzato” alla sua onorevole persona. Ho ricevuto una replica secca e brusca per quella mia disattenzione – nonostante il tono nel testo fosse naturalmente pacato, educato e disponibile – ha scritto nero su bianco che proprio per questo motivo mai mi avrebbe presa in considerazione.
La persona in questione – la cui età è tale per cui potrei essere sua madre, e che spero non rappresenti l’intera nuova generazione di politici che afferma di voler restituire diritti a chi non li ha più, lavoratori giovani e anziani, pensionati e cittadini in difficoltà – avrebbe potuto semplicemente ignorare il mio messaggio, come spesso accade. Si è invece sentito in diritto di rispondermi usando toni arroganti, tipici di alcuni individui – speriamo in via di esaurimento- che pur sapendo di avere il potere di decidere il futuro di lavoratori, lo usano in modo leggero, senza considerare la doverosa responsabilità che dovrebbe accompagnare ogni loro libera scelta.
Agli occhi di chi ha il potere di dare un lavoro, e ciò vale ovunque, anche al di fuori della cerchia istituzionale, chi si candida per ottenere una occupazione si trasforma in una figura astratta, perdendo in quel frangente l’identità come persona in carne e ossa, con una vita, una storia ed esperienze personali, un cuore pulsante ed una testa pensante.
Ma accade anche che, con un meccanismo crudele e inverosimile in questo periodo di ricerca angosciosa di lavoro, il candidato si senta indotto per prudenza ad annientare ogni sua personale libera espressione e manifestazione del pensiero, mentre chi deve o vuole assumere – non importa per quale mansione – aspiri a trovare quasi una sagoma o una maschera da plasmare a sua immagine e somiglianza.
L’obbligatorio curriculum diventa un inutile orpello, in molti casi destinato a non essere nemmeno consultato. Al contrario degli Stati Uniti, dove il cv non contiene dati sensibili per scongiurare discriminazioni legate all’età, all’aspetto fisico o ad altri dati personali, qui in Italia tutto è richiesto, ma si è soliti interrompere la lettura di un curriculum alle prime righe, dopo la data di nascita, lo stato civile, la provenienza o addirittura solo dopo aver visto la foto. Per tanti aspiranti questo sistema di selezione discriminante riduce al lumicino le opportunità di sostenere un colloquio che potrebbe portare a un esito positivo, convincendo il datore di lavoro all’assunzione.
Il diritto al lavoro, tanto citato e tutelato dalla Costituzione ove si afferma che esso debba addirittura “fondare la Repubblica” spesso rimane solo, ed ancora, una chimera e l’affermata garanzia di una occupazione diviene quasi un miraggio a causa delle crisi economiche, ma anche e soprattutto a causa di sistemi di selezione che umiliano il significato del lavoro che la Costituzione tutela come diritto fondamentale. Il lavoro è indispensabile per il rispetto della dignità dei cittadini, ed i modi mediante i quali domanda e offerta si incontrano non sono neutrali. Sembra quasi che lo Stato diventi complice di questi sistemi avallandoli quindi ignorando che, al contrario, dovrebbe essere suo il compito di rimuovere gli ostacoli e promuovere le condizioni che consentano a chiunque di poter entrare nel mercato del lavoro.
Se ciò vale per tutti, a maggior ragione dovrebbe valere per chi rappresenta il potere legislativo, quello che consente di trasformare i principi costituzionali in realtà fattuale, in leggi, in diritti presi sul serio.