Per chi amasse l’Espressionismo astratto e, ancor di più, per chi non lo amasse e volesse capire il motivo per cui opere così lontane dalla classicità siano dei capolavori, è consigliata una visita della all’Ala Brasini del Vittoriano, alla retrospettiva in corso che durerà fino al 24 febbraio 2019.
Il capostipite del movimento, Jackson Pollock (1912 – 1956), non può che essere il protagonista; lui, autenticamente americano, uomo d’eccessi, grazie al suo spirito anticonformista, ha dato vita ad una vera e propria rivoluzione nella creazione artistica.
Non più cavalletti e pennelli, non più riflessione, né osservazione statica ma, rispecchiando il ritmo della vita moderna, una pittura veloce, diretta, dinamica, irruenta. Nessun intermediario tra artista e tela ma su di essa, preferibilmente poggiata sul pavimento, si usa il corpo, si lancia il colore, oppure lo si “sgocciola”, mischiandolo a materiali disparati.
«Sul pavimento sono più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del dipinto, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorare dai quattro lati ed essere letteralmente “nel” dipinto».
Un nuovo approccio: non c’è un progetto preesistente poiché l’opera si sviluppa mentre si crea, seguendo l’istinto, in un processo che avviene man mano, mentre si lavora, durante una sorta di rapporto fisico e in continuo movimento:
«Quando sono “nel” mio dipinto, non sono cosciente di ciò che sto facendo. Non ho alcuna paura di fare cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché il dipinto ha una vita propria».
Alla determinazione di Pollock – artista slegato da qualsiasi riferimento europeo, nonché da ogni canone classico di bellezza – si deve l’avvio di una vera e propria scuola, di un’arte indipendente e anticonvenzionale in quanto non più legata ad esempi antichi o precedenti.
Ed ecco il dripping (letteralmente gocciolare), ovvero una tecnica in cui il colore viene fatto cadere sulla tela attraverso contenitori bucati o direttamente dalle mani.
Ecco il combining painting, ovvero una “pittura combinata” con vari materiali, dalle vernici agli smalti, agli impasti di colore con sabbia, vetri rotti e altri materiali. Ecco l’uso di strumenti alternativi: «Preferisco bastoncini, cazzuole, coltelli».
Pollock e la scuola di New York è una rassegna preziosa, non tanto per la quantità di tele – l’idea di dividere lo spazio del Vittoriano per ospitare due percorsi diversi non fa altro che diminuire la quantità di opere e aumentare il costo dei biglietti d’ingresso. Quanto, piuttosto, perché ha il merito di far vedere, per la prima volta a Roma, l’opera più citata dell’ultimo artista maledetto, la tela madre dell’astrattismo: il Number 27 di Jackson Pollock, in prestito dal Whitney Museum di New York.
Nelle cinquanta opere esposte, tra cui tele di Mark Rothko, Franz Klide, Lee Krasner, Arshile Gorky, c’è tanta sperimentazione; questi artisti sono i precursori delle attuali tendenze culturali internazionali.
In questi quadri ci sono vortici di energia; sono fitti, spessi di pennellate e di materia; mai piatti, piuttosto pieni, intrisi di forza e di vigore. Tanto che Franz Klide afferma: «Non dipingo le cose ma i sentimenti che esse suscitano in me».
«Pollock è la cerniera tra il prima e dopo» affermano i curatori della mostra, Luca Beatrice, David Breslin e Carrie Springer; è il testimone della straordinaria vivacità di New York che, da quel momento e fino ai nostri giorni, vanta il privilegio di essere l’indiscussa capitale del contemporaneo.