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La recessione che non ci voleva

Lo scenario macroeconomico che proponiamo in questo rapporto intensifica i segnali di rallentamento emersi negli ultimi mesi a livello internazionale. La frenata globale è stata difatti confermata dagli indicatori di inizio 2019, interessando un numero crescente di paesi.

Se dal punto di vista quantitativo il segnale è più accentuato rispetto alla previsione di gennaio, non cambiano di molto le spiegazioni che a nostro avviso sono alla base della frenata globale. In particolare, i temi sono due:

  • la vulnerabilità dei mercati finanziari internazionali rispetto all’ipotesi di una normalizzazione delle politiche monetarie;
  • gli effetti del “rischio politico” sulle decisioni di investimento delle imprese.

Su entrambi i versanti è difficile avanzare delle ipotesi riguardo alle possibili evoluzioni. Dal lato dei rischi finanziari, il tema resta quello dell’elevato debito, pubblico e privato, accumula-  to durante gli anni scorsi, e del solo parziale deleveraging attuato durante la ripresa degli ultimi  anni nei maggiori paesi.

Le guerre tariffarie rappresentano invece il momento più significativo della fase di aumento del rischio politico. Un altro esempio rilevante al proposito è rappresentato dal percorso della Brexit; una importante fonte di incertezza sul quadro politico, e quindi degli scenari di politica economica, sono le prossime elezioni europee. Lo scenario potrebbe naturalmente migliorare in presenza di politiche volte ad attenuare queste fonti di tensione.

Primi passi concreti sono giunti dalle banche centrali: gli aumenti attesi dei tassi d’interesse annunciati per il 2019 sono rapidamente rientrati, con effetti positivi immediati sui mercati obbligazionari e azionari. Significativo che anche le tensioni sui mercati emergenti si siano sensibilmente attenuate.

Meno evidenti invece i progressi sul versante dell’incertezza politica. Le  trattative sulla gestione delle politiche tariffarie fra Cina e Usa non saranno risolutive, e difficilmente il quadro dei prossimi mesi potrà suggerire un’evoluzione definitiva degli scenari. Non meno controverso il percorso di uscita del Regno Unito dalla Ue. Anche i paesi dell’eurozona sono apparsi relativamente passivi rispetto al peggioramento del quadro congiunturale; per ora si guarda alle elezioni europee, ma le politiche resteranno appannaggio dei singoli paesi membri che proseguiranno in maniera disordinata.

Il rallentamento europeo è stato in buona parte legato a fattori esterni, ma non ha colpito tutti con la stessa intensità. La frenata degli investimenti globali si sta rivelando penalizzante soprattutto per le imprese tedesche. La specializzazione della Germania nella produzione di beni di investimento la rende difatti particolarmente sensibile alle oscillazione della domanda internazionale. A ciò si aggiunge poi l’effetto specifico del possibile spiazzamento del settore automobilistico tedesco per effetto della transizione dal diesel verso i motori elettrici. D’altra parte il processo di transizione verso un’economia a minore consumo di combustibili fossili è stato ritardato per troppi anni, e la consapevolezza di questo ritardo inizia a orientare le scelte dei consumatori, e conseguentemente anche i policy maker. La sfida oggi è fra i paesi che sapranno collocarsi in una posizione di leadership nel nuovi ambiti dell’economia circolare. Innovazioni di processo e di prodotto orientate alla sostenibilità ambientale ci diranno quali saranno i vincitori delle nuove sfide.

Per ora però l’industria europea è entrata in una fase di stallo. L’evoluzione cedente della produzione a fine 2018 è stata seguita da un rimbalzo a gennaio, ma si tratta probabilmente più che altro di accidentalità di percorso legate anche alla calendarizzazione delle festività di dicembre.

Gli indicatori del clima di fiducia delle imprese sono abbastanza concordi nel segnalare che a inizio 2019 il quadro europeo sta ancora peggiorando.

La perdita di smalto del commercio internazionale ha anche condizionato le esportazioni dell’Italia che in realtà, come già da alcuni anni, non sono andate peggio rispetto alle altre economie dell’eurozona. Il  punto è  che un’economia caratterizzata da  un  andamento tendenzialmente più debole della domanda interna, esito della stagnazione oramai ventennale della nostra produttivi- tà, rischia facilmente di scivolare ai margini della recessione quando il sostegno della domanda estera si ridimensiona. Stiamo attraversando una fase ancora di estrema debolezza del mercato del lavoro; la pressione della disoccupazione spinge al ribasso la crescita salariale, favorendo la posizione competitiva degli esportatori, e ritardando il recupero dei consumi.

L’Italia affronta le sfide del 2019 come un paese deviante rispetto agli altri. Il differenziale di crescita rispetto alle altre economie dell’area euro resta ampio, anche se si guarda al divario in termini di Pil nominale, data la più bassa inflazione. Meno crescita reale, meno inflazione, e tassi d’interesse più alti. Difficile sostenere in queste condizioni un debito pubblico più alto degli altri paesi. Una correzione del saldo, che tendenzialmente si porterebbe sopra il 3 per cento del Pil, sembra scontata. Entità e tempi della correzione fiscale sono la sfida che attende il nostro Governo, innanzitutto dal prossimo passaggio del Def.

L’approssimarsi  delle elezioni europee con  buona probabilità spingerà però a  rinviare ulteriormente la definizione delle politiche per il 2020. Sarà con maggiore probabilità nel corso dell’estate che si avvierà l’iter di definizione delle politiche in vista della Legge di bilancio di fine anno.

L’auspicio è di potere definire le prossime misure beneficiando di un quadro economico internazionale meno negativo e di una situazione distesa dei mercati finanziari, tale da rendere plausibile l’adozione di obiettivi sui saldi più elevati senza andare incontro a nuove tensioni sui tassi d’interesse. Una ripresa graduale della nostra economia dal 2020 è quindi possibile, ma rappresenta un esito tutt’altro che garantito.

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