Aver tenuto segreto il dossier del ministero della Salute sul virus è stato un fatto gravissimo. Adesso ripartire in sicurezza»
«Sono l’antenato di me stesso», ama ripetere il professor Sergio Tiberti, oggi a capo della S.M.A. Un modo per dire che tutti i traguardi raggiunti, lui, che non è figlio di baroni o amico dei politici, li deve esclusivamente al suo impegno e alla sua professionalità. E di obiettivi ne ha raggiunti non pochi nella sua carriera.
A sfogliare il curriculum si rimane colpiti dalla vastità dei titoli. Accademico delle Scienze, direttore del centro Interdipartimentale di Epidemiologia e professore universitario in Igiene generale applicata presso la facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università de L’Aquila, solo per citarne alcuni.
Tiberti è considerato un’autorità in tema di sicurezza sul lavoro e organizzazione e programmazione dei servizi sanitari e analisi epidemiologiche. E’ quindi ovvio che nell’emergenza Covid-19 molte aziende si siano rivolte a lui e alla sua società – la S.M.A. Servizi Medici Aziendali Sistemi Sanitari Srl, società che da più di venti anni si occupa di Medicina del Lavoro dal 1999 – per organizzare al meglio la ripresa delle attività. Ma c’è anche un aspetto meno noto dell’attività di Tiberti: il suo impegno nel sostegno alle persone meno fortunate.
In queste settimane, per esempio, ha finanziato un’associazione che sta aiutando le famiglie in difficoltà, «perché la situazione è drammatica non solo dal punto di vista sanitario ma anche economico-sociale. Molti si vergognano a rivolgersi ai comuni e a dire che non hanno di che sfamare i propri figli. Anche perché poi si trovano davanti la solita burocrazia italiana. Ecco perché il sostegno offerto da tanto associazionismo è fondamentale: è più rapido e meno respingente».
Per il professore oggi non è il momento delle polemiche politiche, oggi è il momento di fare il massino per aiutare il Paese a risollevarsi, senza starsi a mettere medaglie sul petto. Aiutare il Paese nel suo caso vuol dire anche fornire ad alcune delle più importanti aziende italiane ed internazionali i termoscanner per gestire sui luoghi di lavoro la fase 2. Un servizio, ci tiene a precisare, che la sua società «offre a prezzo di costo, perché vogliamo dare una impronta sociale al lavoro che facciamo. Di sciacalli in giro ce ne sono anche troppi».
Professore, a quali aziende offrite i vostri servizi?
«Sono moltissime, grandi e piccole. Alcune sono gruppi nazionali e internazionali, come, Enel, Tim, Windtre, l’Enav. Tutte stanno investendo molto sulla sicurezza e stanno facendo un ottimo lavoro. Abbiamo collaborato assieme alla stesura di rigorosi protocolli di sicurezza. Ai termoscanner che gestiremo ci saranno dei sanitari che, qualora un dipendente avesse una temperatura superiore a 37,5 provvederanno, con garbo e discrezione, a spiegargli come comportarsi e a contattare il medico di famiglia. La presenza dei sanitari garantisce la validità dell’operazione oltre che il rispetto della privacy. Oltre al termoscanner con la presenza di sanitari offriamo il triage telefonico. Che se ben fatto dà ottimi risultati. Pensi che attraverso un triage telefonico, pochi giorni fa abbiamo individuato 15 persone affette da Covid-19. Persone che avevano già fatto precedentemente un tampone che era risultato negativo e che pure presentavano sintomi su cui era opportuno un’ulteriore approfondimento. E infatti, grazie ai nostri operatori che hanno insistito per ripetere il tampone, è emerso che erano postivi».
La fase 2, attesa con un misto di liberazione e di ansia da molti italiani, rappresenterà un momento delicato. Come affrontarla al meglio?
«Le aziende con cui abbiamo collaborato all’elaborazione di protocolli di sicurezza stanno studiando rientri scaglionati anche grazie alla possibilità di continuare ad applicare per molti dipendenti lo smart working. E’ fondamentale che non solo i rientri siano scaglionati ma anche l’ingresso al lavoro, per evitare che troppe persone si accalchino tutte assieme ai cancelli delle aziende. Gli ingressi scaglionati hanno poi il pregio di evitare l’affollamento dell’ora di punta sui mezzi pubblici, anche se ritengo che in questa fase sia preferibile spostarsi con i mezzi privati. Altro cosa importantissima è fare la sanificazione degli ambienti. Ma che siano sanificazioni serie».
Ovvero?
«Si dovrebbe fare prima un tampone, poi la sanificazione e poi un altro tampone. E soprattutto bisogna rivolgersi ad aziende responsabili, per evitare che le sanificazioni siano fatte con l’acqua fresca. La vicenda delle mascherine taroccate, che ha occupato le pagine dei giornali, deve essere un monito per tutti a tenere alta la guardia. In questa fase bisogna stare attenti. Abbiamo pagato caro gli “arresti domiciliari” ed ora bisogna evitare che una persona asintomatica possa rientrare al lavoro e contagiare i suoi colleghi, vanificando quello fin qui fatto e ridando il via alla catena esponenziale dei contagi».
Quindi ricapitolando, termoscanner, triage, sanificazione, mascherina e, possibilmente guanti, sono le condizioni basilari per un rientro in sicurezza sui luoghi di lavoro. E il metro di distanza? E’ utile tenerlo?
«Il metro distanza non serve a niente, per il semplice motivo che un metro è troppo poco. Le goccioline di flügge arrivano in una normale conversazione ad un 1,70-2 metri di distanza. E quindi dire un metro significa che, di fatto, il 50 per centro delle goccioline possono cadere a terra ma l’altro 50 per cento raggiunge il bersaglio. Mi rendo conto che dire due metri complica le situazioni, però è quello che stiamo raccomandando alle aziende con cui collaboriamo. Peraltro sottolineo che la gente ha buon senso: basta vedere le persone in fila al supermercato: ebbene tutti o quasi tengono circa due metri l’una dall’altra. Poi c’è un altro elemento che nessuno sottolinea e che è invece importante: mascherine e guanti vanno considerati rifiuti speciali, potenzialmente infetti. La cosa più intelligente da fare, davanti ai luoghi di lavoro, come all’uscita dei supermercati, è prevedere la presenza di contenitori di cartone per gettare questi rifiuti che adesso finiscono nel normale ciclo di raccolta».
Professor Tiberti, quante sciocchezze si sono dette in questi mesi sul coronavirus?
«Eh, sapesse! Tante, troppe. A cominciare da quando qualcuno ha sostenuto che era una normale influenza. Una sciocchezza abissale! Prima di parlare certe persone, politici o opinionisti, dovrebbero avere la pazienza di avere in mano dati certi. E poi il balletto, ‘apri tutto’, chiudi tutto”! Anche questo ha disorientato non poco. Non si fa politica sulla pelle delle persone».
Il governo come si è mosso?
«Mi rendo conto dei problemi inediti che ci si è trovati a dover affrontare con questa pandemia e non intendo criticare nessuno. Però è innegabile che le incertezze iniziali hanno pesato e non poco nella diffusione dell’epidemia. Quando in tempi non sospetti, dicevo, e l’ho scritto anche sui giornali, che andavamo incontro ad una micidiale pandemia in tanti hanno alzato le spalle. Avevo messo sull’avviso già alla fine di dicembre dello scorso anno – è ormai dimostrato che il virus girava in Italia già da ottobre-novembre 2019 – di quel che si stava verificando in Asia ma fino alla fine si è preferito credere che, chissà per quale miracolo l’Occidente sarebbe stato risparmiato. Voglio ricordare che solo l’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato lo stato di pandemia. Un ritardo incredibile».
Giorni fa è uscita la notizia che il ministero della Salute aveva già preparato ai primi di gennaio un piano di emergenza per il Coronavirus. Piano che è poi stato tenuto segreto perché, uno degli scenari previsti nel documento, avrebbe potuto creare il panico. Lo ritiene un fatto grave?
«Lo ritengo gravissimo. Capisco che la politica ha bisogno di non spaventare le persone. Però se pensiamo che circa due mesi abbiamo avuto oltre 28mila morti forse un po’ di coraggio in più sarebbe stato necessario. Peraltro lo scenario previsto dal piano non si allontana molto da quanto è accaduto nella realtà. Anzi, la rapidità con cui si è diffuso il Covid-19 è stata più rapida di quanto si immaginasse allora».
E del comitato scientifico del governo che mi dice?
«Preferisco non esprimermi. Hanno detto tutto e il contrario di tutto, passando più tempo in tv che a lavorare sul problema. I modelli previsionali che hanno parlato di un numero monstre di 150 mila ricoverati in terapia intensiva entro giugno se il governo il 4 maggio il Governo avesse deciso di sbloccare completamente il lockdown, non sono convincenti. Quel numero è sballato, sarebbe corretto se in Italia ci fossero 150 milioni di abitanti, ma visto che siamo circa 60 milioni…».
Il virus ha subito diverse mutazioni. E’ più o meno aggressivo?
«Ne ha subite circa una trentina. Scientificamente quando muta, muta in senso buono, diventa cioè meno aggressivo. Però anche qui va sottolineato che ci troviamo di fronte ad un virus completamente sconosciuto e diverso dagli altri. Io, per esempio, ritengo che la ricerca di un farmaco specifico in questo momento possa essere più utile del vaccino, perché non abbiamo ancora grandissime certezze scientifiche che ci dicono che ci sia un’immunità dopo il vaccino. Covid-19 è un virus a Rna molto subdolo e bisogna fare attenzione. Il vaccino, visto che non abbiamo una certezza scientifica, sull’immunità, potrebbe rivelarsi una delusione».
Si ricorda, all’inizio dicevano che il virus colpiva solo gli anziani …
«E già, vaglielo a dire agli anziani che se muoiono loro è meno grave … che bestemmia! Peraltro la verità è che sono morti anche tanti giovani».
In conclusione, professore per lei riaprire il Paese è giusto?
«Sì, ma con attenzione. L’apertura totale sarebbe un errore. Si prevede un ritorno di fiamma del virus verso settembre-ottobre o al massimo tra dicembre e gennaio del prossimo anno. Bisogna allora agire al meglio e controllare come la pandemia si comporta. Nel frattempo dobbiamo ricominciare a rimettere in moto l’economia, pesantemente compromessa, e la possibilità di farlo in sicurezza c’è».
La ringraziamo Professore.
«Sono io che ringrazio voi».