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Toti: "Senza un nuovo partito dei moderati non si conquista Palazzo Chigi. Resterò governatore per cinque anni"

Presidente Toti, concorda con l’onorevole Mara Carfagna, quando sostiene che i risultati delle Regionali hanno segnato la morte del sovranismo e del populismo?
Io non credo che abbiano segnato la morte di alcunché. Hanno, semmai, sancito l’ennesima scivolata verso il basso di quell’area moderata del Centrodestra che ne è sempre stata il traino e la colonna portante. Quindi, visto che i sovranisti e i cosiddetti populisti riscuotono ancora un’importante fascia di consenso nel Paese, io mi preoccuperei più della parte politica di cui faccio parte, quella popolare, riformista e liberale. E’ su quella che bisogna concentrare l’attenzione. Il grande malato non è il sovranismo e neppure il populismo, ma la terza gamba del tavolino, ovvero l’area moderata.

C’è, quindi, bisogno di un nuovo partito che attragga i moderati o i ragionevoli come li chiama lei?
C’è sicuramente bisogno di cambiare rotta. Einstein diceva che ripetere un’azione, sperando che porti a risultati diversi, è l’anticamera della follia. Continuare sulla stessa strada sperando che per palingenesi si rigeneri un’area politica, che va declinando ormai da molte tornate elettorali, sarebbe altrettanto folle. C’è certamente bisogno di una chiamata degli uomini di buona volontà per ricostruire il polo moderato.

Con un nuovo partito?
Con un movimento politico che gli assomigli molto. Nell’era dei partiti liquidi, è difficile dare un contorno preciso a un movimento politico più o meno strutturato, ma un’area di riferimento in grado di mettere insieme personalità politiche anche diverse, consenso alle proprie liste, idee senza preconcetti, questo è possibile e auspicabile. Un’area aperta. Quello che ha ucciso il moderatismo italiano dopo Berlusconi è stata la claustrofobia, ovvero una classe politica che si è chiusa in se stessa, idee non al passo con i tempi, personalità non sufficientemente vaste e carismatiche per aggregare il consenso. Io non credo che si debba pensare a un partito di Toti o della Carfagna, di Rossi o di Bianchi. Si deve pensare a un grande contenitore in grado di comprendere, fra tanti altri, anche Toti e la Carfagna.

Il suo “Cambiamo” a questo punto le sta evidentemente stretto?
Molto stretto: Io ho sempre detto, peraltro, che Cambiamo voleva essere solo il fiammifero che innescava l’incendio. Cambiamo è pronta a sciogliersi anche domattina, a fondersi o confluire in un’area più grande. Io non mi affeziono alle mie creature e neppure sono un maniaco della forma, ma guardo alla sostanza. E la sostanza è che oggi abbiamo una gamba del tavolo costituita dalla Lega, che deciderà nel prossimo futuro autonomamente come evolversi, poi la gamba, che si sta vistosamente gonfiando, di una Destra più o meno tradizionale e, infine, la gamba malconcia di un’area tutta da ricostruire con quelli che ci vogliono stare. Una gamba, però, senza la quale il tavolo non sta in piedi.

E quale sarebbe, nell’eventualità di un nuovo partito, il ruolo di Silvio Berlusconi e di Forza Italia?
Da anni io imploro Forza Italia a partecipare a un processo rifondativo, all’interno del quale si metta in discussione come tutti gli altri. Il problema di Forza Italia è l’autoreferenzialità, che la sta numericamente relegando ai margini della scena politica, Se Forza Italia partecipasse a una grande catarsi collettiva del moderatismo italiano, con la sua classe dirigente, le sue idee, i suoi voti, ma mettendo in discussione se stessa, la sua struttura e il suo nome, sarebbe qualcosa di molto importante, ma purtroppo non ha mai dato segnali che vadano in questa direzione. Anzi. Ha considerato ogni attività contigua al suo mondo politico, come qualcosa di ostile, anziché come qualcosa con cui dialogare e allearsi.

Lei sostiene che Matteo Salvini dovrebbe lasciare ad altri la maglietta della Lega e farsi carico della leadership del Centrodestra. Non è un controsenso invocare Salvini premier subito dopo il suo arretramento elettorale. Perché non lei o Luca Zaia, che avete ampiamente dimostrato di saper governare e vincere?
In democrazia è il voto popolare a fare la differenza. Matteo Salvini con i suoi alti e meno alti, non direi bassi, è ancora il segretario politico del partito più votato dagli italiani, per cui l’onere e l’onore di mettere insieme e guidare la coalizione spetta indubitabilmente solo a lui. Quello che, però, dico spesso all’amico Matteo è che il consenso popolare è una condizione necessaria, ma non sufficiente per costruire una coalizione vincente a livello di Governo. Se avessimo votato per eleggere il Parlamento nazionale, con i numeri di questa tornata elettorale avremmo vinto solo in alcune Regioni e non in altre. Non è affatto sicuro che il Centrodestra, così come è oggi, possa conquistare il Governo del Paese. Salvini guida la Lega in modo egregio, ma dovrebbe provare a prefigurare i contorni di una coalizione vincente, come aveva fatto Silvio Berlusconi nel 1994, 1996, 2001 e, in ultimo nel 2008. Una coalizione che abbia, innanzi tutto, quelle caratteristiche, senza le quali non si va da nessuna parte: l’onorabilità internazionale, la riconoscibilità nel panorama europeo e la capacità di allargarsi per trovare i numeri necessari. Oggi, sommando banalmente i voti della Lega, dei Fratelli d’Italia e di Forza Italia, non c’è affatto la certezza che si arrivi a quel fatidico cinquanta per cento, ovvero all’asticella che apre le porte di Palazzo Chigi

Le elezioni regionali hanno registrato le vittorie plebiscitarie di tutti i Governatori uscenti, non solo di quelli del solo del Centrodestra. Quanto hanno pesato le decisioni responsabili assunte per fronteggiare la diffusione del Covid, a fronte delle tentazioni negazioniste dei leader nazionali?
Indubbiamente molto. Ha pesato la capacità di reazione del sistema regionale e sono state premiate quelle Regioni che, seppure in modi e forme diversi, hanno dimostrato ai propri cittadini di saper governare il timone del comando, di avere conoscenza della rotta e anche il coraggio di navigare in un mare in tempesta. Equilibrio, competenza, determinazione e concretezza, ovvero quelle virtù e quei valori che dovrebbero essere alla base della politica. Il Covid ha indubbiamente riportato un po’ di normalità e di equilibrio nel Paese, dopo la fine della Seconda Repubblica e la sbornia dei Cinquestelle e delle loro irrealizzabili promesse.

Anche se l’obbligo indiscriminato della mascherina all’aperto proprio non le va giù. Come si vince allora la battaglia contro il Covid?
L’obbligo della mascherina all’aperto, se è un segnale ai cittadini perché siano prudenti, attenti e responsabili, è comprensibile. Se è, invece, la generalizzazione piatta di un obbligo, che a volte è indispensabile, altre volte francamente superfluo, mi sembra poco utile alla causa. Noi dobbiamo essere in grado di sconfiggere il Covid, laddove lo troviamo: quartiere per quartiere, strada per strada, città per città, regione per regione. Pensare a provvedimenti uguali per tutti può talvolta semplificare la vita e apparire rassicurante, ma francamente non serve a vincere la guerra contro il nemico invisibile.

Quale sarà il suo futuro personale? Come immagina Giovanni Toti fra cinque anni?
Un po’ più vecchio, un po’ più grasso, perché, nonostante gli sforzi sul tapirulan, continuerà a non perdere chili. Sarà anche un po’ più esperto di governo regionale e conoscerà ogni angolo della sua Liguria. Non sa cosa farà nella vita, perché gli è già difficile conoscere in anticipo anche i provvedimenti che adotterà domani. Quindi, aspetta questi cinque anni e poi deciderà.

Antonello Sette

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