Mentre Trump non molla la presa sulle presunte frodi elettorali, Biden e Harris hanno già stilato la lista di possibili collaboratori per la futura amministrazione.
Nonostante la direzione sulle politiche da perseguire sia poco chiara agli elettori democratici, le scelte sugli incarichi lasciano poco spazio all’immaginazione.
La campagna di Biden è costellata da espressioni come “ritorno alla decenza ed alla normalità”.
Ma, come alcuni analisti osservano, si potrebbe parlare più che altro di “continuità con lo status quo.
La Cnn grida al miracolo, titolando che metà della squadra Biden è composta da persone provenienti dalle minoranze etniche e la maggioranza da donne. Vediamo nel dettaglio le politiche estere.
Al Dipartimento della Difesa vediamo Lisa Sawyer, ex Direttrice Nato nel dipartimento degli Affari Strategici Europei del Consiglio Atlantico, ex consigliere alle politiche estere di JP Morgan, pilastro di Wall Street, e infine parte della Task Force per la “Nuova Sicurezza Americana” che interveniva nei paesi non compiacenti con le politiche USA attraverso economie di guerra. Grande sostenitrice di un aumento delle sanzioni contro la Russia, di una ripresa del sostegno armato alle forze ucraine in barba agli accordi di Minsk e di un aumento delle truppe USA in Europa così com’era nel 2012.
Al Pentagono troviamo poi Farooq Mitha, attivista musulmano parte di Emgage, organizzazione sostenuta da lobbies ed esercito israeliani.
Diversi leaders palestinesi in America hanno chiesto a Biden la sua rimozione. Come assistente al Dipartimento di Stato per gli Affari Africani troviamo Linda Thomas-Greenfield, grande alleata dell’ex consulente alla Sicurezza Susan Rice la quale supportò le guerra in Libia e in Iraq.
Thomas-Greenfield ha sostenuto le politiche di George W. Bush che facilitavano lo sfruttamento economico delle economie africane emergenti.
È attualmente un alto funzionario della Albright Stonebridge Group, compagnia presieduta dall’ex Segretario di Stato Madeleine Albright e che fa azione di lobby per conto dell’industria della Difesa.
Sempre al Dipartimento di Stato troviamo Dana Stroul, parte del pensatoio conservatore Washington Institute per le Politiche del Vicino Oriente, fondato dalla lobby israeliana AIPAC.
Parte del “Gruppo di Studio sulla Siria”, ha pubblicamente dichiarato il sostegno per la presenza delle truppe USA almeno in un terzo del territorio siriano, soprattutto, citiamo, quello “ricco di risorse”.
Ovviamente favorevole ad un ulteriore giro di vite sulle sanzioni economiche contro Damasco.
E che dire del Venezuela? Il sostegno bipartisan all’operazione di regime change a Caracas è ormai cosa nota.
Qui ne troviamo conferma in due nomi, quello di Paula Garcia Tufro, membro del National Security Council sotto Obama, e di Kelly Magsamen, ex funzionario del Pentagono e del Dipartimento di Stato.
La prima coniò l’espressione “il Venezuela è una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti.”
La seconda, in un tweet successivamente cancellato, lodò l’inviato speciale in Venezuela Elliott Abrahms, che travestì gli aiuti militari all’opposizione da aiuti umanitari, definendolo “un grande difensore dei diritti umani”.
La lista potrebbe andare avanti. Ma per questo, vi rimandiamo ad un prossimo speciale di approfondimento.
Leni Remedios
Miller, il nuovo capo del Pentagono, è “stufo della guerra”.
“È giunto il momento di tornare a casa.”
Questo il messaggio rivolto alle forze statunitensi all’estero da Christopher Miller, segretario alla Difesa ad interim designato dal presidente, Donald Trump, dopo il licenziamento di Mark Esper.
“Non siamo un popolo da guerra perpetua: la guerra perpetua è l’antitesi di tutto ciò per cui ci battiamo e per cui hanno combattuto i nostri antenati”, ha aggiunto Miller.
La politica di Trump sul ritiro delle truppe dal Medio Oriente è stata sabotata in passato dai funzionari americani.
L’ex inviato speciale per la Siria, James Jeffrey, anch’egli silurato nei giorni scorsi dalla Casa Bianca, ha ammesso nel corso di un’intervista di avere mentito al presidente sul numero dei soldati Usa schierati in Siria.
Il numero reale è “molto più alto” dei duecento soldati circa che Trump ha accettato di lasciare nel Nord-Est della Siria l’anno scorso.
Pechino: RCEP, una vittoria storica per il multilateralismo
Dopo otto anni di trattative, la Cina e altre 14 economie hanno firmato, domenica 15 novembre, il più grande accordo di libero scambio al mondo: il Partenariato economico regionale globale (RCEP, Regional Comprehensive Economic Partnership), proposto dall’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) per promuovere il commercio tra i suoi Stati membri e con i partner del Free Trade Agreement (FTA).
Dunque ne fanno parte i 10 membri dell’ASEAN, vale a dire Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam, e i cinque partner FTA, ovvero Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.
L’India, pur avendo partecipato ai negoziati, ha deciso di non aderire all’accordo finale.
Come afferma il premier cinese, Li Keqiang, la firma dell’accordo rappresenta una vittoria del multilateralismo e del libero scambio.