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Economia USA. Quella profetica caduta di Joe Biden

Economia USA. Quella profetica caduta di Joe Biden

Giovedì 25 marzo, nella sua prima conferenza stampa da presidente degli Stati Uniti, Joe Biden si è impegnato a impedire che la Cina diventi il paese più ricco del mondo.

“La Cina si prefigge di diventare il Paese leader nel mondo, il più ricco e il più potente. Non succederà, non sotto i miei occhi”, ha assicurato Biden, “perché gli Stati Uniti continueranno a crescere e ad espandersi”.
Purtroppo per gli Stati Uniti, indipendentemente dalle promesse del POTUS, alla luce dei dati attuali il futuro dell’economia americana è meglio rappresentato dall’immagine di Biden che inciampa sulla scaletta dell’Air Force One. Vediamo perché.
Sabato scorso, nell’ambito del tour mediorientale del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, Cina e Iran hanno firmato un accordo di collaborazione della durata di 25 anni in base al quale, stando alla bozza dell’accordo ottenuta dal New York Times, la Cina si impegna a investire 400 miliardi di dollari nell’economia iraniana in cambio di una fornitura costante e fortemente scontata di petrolio.

Si tratta di un accordo che era nell’aria da anni e la cui stesura è stata completata la scorsa estate.

Secondo quanto riportato dal sito oilprice.com nel luglio del 2020, il primo quinquennio vedrà la Cina investire 280 miliardi di dollari nello sviluppo del settore petrolchimico, petrolifero e del gas della Repubblica Islamica, e i restanti 120 miliardi di dollari nel potenziamento delle infrastrutture industriali e di trasporto. In cambio, le aziende cinesi avranno il diritto di opzione sui nuovi progetti in ambito energetico, oltre a sconti minimi garantiti per gli acquisti nello stesso settore e alla possibilità di pagare con moneta debole accumulata facendo affari in Africa e nelle ex Repubbliche sovietiche.

Ma l’aspetto più interessante dell’accordo, sempre stando a quanto scritto l’anno scorso da oilprice.com, sarebbe quello militare, potenzialmente in grado di cambiare l’intero equilibrio del potere geopolitico in Medio Oriente, in quanto prevedrebbe “una completa cooperazione militare aerea e navale tra Iran e Cina, con la Russia che assumerà anch’essa un ruolo chiave”.

Notizie più fresche provenienti dallo stesso sito vedono funzionari iracheni ed egiziani discutere della possibilità di espandere le esportazioni di petrolio iracheno verso il Nord Africa attraverso l’ampliamento dell’oleodotto Bàssora-Aqaba all’Egitto.

“L’Iraq rimane la principale copertura per il trasporto del petrolio iraniano nel resto del mondo”, quindi la notizia andrebbe letta in questa luce, scrive OilPrice.

Fattore chiave per questa espansione è il lancio di una rete integrata basata su forniture di petrolio, gas ed elettricità, che consenta l’installazione di infrastrutture permanenti tra i vari Paesi e la presenza in loco di personale tecnico e di sicurezza proveniente soprattutto da Iran e Cina.

Forse non tutti sanno che esiste un progetto cinese chiamato Global Energy Interconnection (GEI), mirato a creare una interconnessione mondiale delle reti elettriche nei prossimi decenni .

Nel luglio del 2018, tale iniziativa è stata incorporata nei tre principali documenti finali dell’ottava riunione ministeriale del Forum di cooperazione Cina-Stati arabi (CASCF), ovvero nella Dichiarazione di Pechino dell’ottava riunione ministeriale, nel Piano d’azione 2018-2020 e infine nella Dichiarazione di azione per Cina e Stati arabi per costruire insieme la Nuova via della seta.

La visita di Wang Yi in Iran, come abbiamo già accennato, rientra in un tour che ha portato il ministro cinese a visitare, oltre alla Repubblica Islamica, altri cinque Stati mediorientali, ovvero Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Oman. Il 24 marzo, a Riyad, Wang Yi ha rilasciato un’intervista all’emittente televisiva Al Arabiya, in cui ha sottolineato che nel 2020 il commercio reciproco tra Cina e Stati arabi si è avvicinato ai 240 miliardi di dollari, il che fa della Cina il loro principale partner commerciale.

Inoltre, sempre nel 2020, proprio dagli Stati arabi è arrivata la metà delle importazioni di petrolio greggio della Cina.
Questo per quanto riguarda il settore energetico. Ma, naturalmente, c’è  molto di più.

Nel 2009 la Cina ha superato la Germania diventando il maggiore esportatore mondiale, mentre dal 2014 è anche al primo posto in termini di somma delle sue esportazioni e importazioni.

Nel 2019, il surplus commerciale della Cina si è attestato intorno ai 422 miliardi di dollari e le sue esportazioni di beni hanno raggiunto il livello record di quasi 2.500 miliardi di dollari .

Alla luce di tutto ciò, è naturale chiedersi in che modo il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, intende impedire al Dragone di diventare il Paese leader nel mondo, il più ricco e il più potente.
Nella conversazione telefonica di venerdì scorso sulla Cina tra Biden e il premier britannico, Boris Johnson, il primo ha suggerito l’idea di lanciare un progetto alternativo alla Nuova via della seta “proveniente dagli stati democratici”.

Con Johnson “c’era pieno accordo“, ha assicurato Biden, ma forse non era al corrente delle ultime notizie provenienti da Londra, secondo cui il governo britannico, in barba a tutte le dichiarazioni ostili nei confronti di Pechino, “continuerà a perseguire rapporti economici positivi, inclusi legami commerciali più profondi e maggiori investimenti cinesi nel Regno Unito”.

Si tratta di una posizione ufficiale messa nero su bianco nel documento Global Britain in a Competitive Age, pubblicato il 16 marzo 2021 e che descrive la visione del governo per il ruolo del Regno Unito nel mondo nel prossimo decennio e le azioni da intraprendere fino al 2025.
Visto che nella “società dell’informazione post-industriale” c’è poco spazio per l’industria, nel 2020 la Cina è diventata il primo partner commerciale dell’Unione europea per quanto riguarda lo scambio di merci, superando gli Stati Uniti.

Sulla base dei dati del 2017, osservando la composizione del PIL a parità dei poteri di acquisto per settore economico, possiamo notare come il settore secondario contribuisca alla formazione del PIL cinese per il 40% circa e di quello statunitense per il 19% .

In un suo recente articolo su Asia Times, “Usa e NATO contro Russia e Cina in una guerra ibrida verso il traguardo”, il giornalista brasiliano Pepe Escobar cita Wang Yiwei, direttore del Centro per gli studi sull’Europa presso l’Università Renmin di Pechino.

“La Cina non è isolata dagli Stati Uniti, dall’Occidente e nemmeno dall’intera comunità internazionale. Maggiore è l’ostilità che mostrano, maggiore è l’ansia che provano. Quando gli Stati Uniti viaggiano in tutto il mondo per chiedere sostegno, unità e aiuto ai loro alleati, ciò significa che l’egemonia degli Stati Uniti si sta indebolendo”, afferma Wang Yiwei.

“Non lasciatevi ingannare dalle sanzioni tra Cina e Unione europea, innocue per i legami commerciali ed economici.

E i leader europei non saranno così stupidi da abbandonare totalmente l’accordo Cina-UE sugli investimenti, perché sanno che non potranno mai ottenere un così buon affare quando Trump o il Trumpismo torneranno alla Casa Bianca”.
Un’opinione che persino l’Economist sembra condividere.

“La quota della Cina nel commercio globale è tre volte quella dell’Unione Sovietica nel 1959. I prezzi aumenterebbero se i consumatori occidentali venissero tagliati fuori dall’officina del mondo. La Cina produce il 22% delle esportazioni manifatturiere mondiali. I settori occidentali che dipendono dalla Cina dovrebbero affrontare uno shock: il settore tecnologico in America, quello automobilistico in Germania, bancario in Gran Bretagna, dei beni di lusso in Francia e minerario in Australia. Oggi, vietare alla Cina di utilizzare il dollaro potrebbe innescare una crisi finanziaria globale”, scrive l’Economist.

E aggiunge: “Nel breve periodo, se costretti a schierarsi, molti Paesi potrebbero scegliere la Cina rispetto all’Occidente. Dopotutto, per quanto riguarda il commercio di merci, la Cina è il maggiore partner commerciale di 64 paesi, l’America appena di 38. Invece di isolare la Cina, l’America e i suoi alleati potrebbero finire per isolare se stessi”.

Spera sempre per il meglio, ma preparati al peggio, dice un noto proverbio.

Sarà stato con questo pensiero in mente che il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, intervistato dalla stampa cinese lo scorso 22 marzo, ha suggerito di ridurre i rischi collegati alle sanzioni unilaterali attraverso il “passaggio a pagamenti in valute mondiali alternative al dollaro” e l’abbandono “dell’uso di sistemi di pagamento internazionali controllati dall’Occidente”.

Come si legge nel documento Global Britain in a Competitive Age, che abbiamo già citato, “la Cina contribuirà alla crescita globale più di qualsiasi altro Paese nel prossimo decennio, con benefici per l’economia globale”.
Tuttavia, per quella parte dell’establishment europeo che mantiene stretti rapporti economici con gli Stati Uniti, la continua crescita cinese non è una buona notizia.

Anche se in numero sempre minore, evidentemente Washington possiede ancora delle leve di potere per manovrare in Europa, e le usa per sabotare i rapporti diplomatici dell’Unione europea con i suoi rivali, per esempio spingendo i leader europei a introdurre sanzioni coordinate contro il Dragone, come accaduto nei giorni scorsi.

Fino a che punto i Paesi europei permetteranno agli Stati Uniti di intervenire nei loro affari interni? E fino a che punto la Cina permetterà all’Europa di tirare la corda?
Una dinamica simile è quella che possiamo osservare nei rapporti tra Usa, Unione europea e Russia. In questo caso, però, l’Unione europea si è piegata a tal punto da permettere agli Stati Uniti di pianificare il dispiegamento di missili ipersonici americani sul suo territorio.

La notizia arriva da fonti ufficiali, è stata infatti data lo scorso 11 marzo dal generale statunitense James C. McConville.

I media mainstream hanno completamente taciuto la notizia, forse appunto per evitare di danneggiare i rapporti dell’Europa con la Russia più di quanto non stiano cercando di fare gli Stati Uniti.
A lungo andare, però, il doppio gioco a cui sta giocando l’Europa potrebbe rivelarsi molto pericoloso.

Giulia Zanette

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