“Conoscendo la sua proverbiale mancanza di coraggio non ho mai avuto dubbi. E’ un uomo che vive di sondaggi ma che ha un terrore senza fine di misurarsi con i cittadini. Vive di like, ma teme il voto”. Matteo Renzi, leader di Italia viva ed ex premier non si stupisce affatto per il fatto che Conte abbia declinato l’offerta del Pd di candidarsi alle suppletive di Roma per un seggio parlamentare. Renzi poi dice “no ad alleanze coi sovranisti e coi populisti perchè penso che il popolo riformista otterrebbe un risultato decisivo per governare. Non da soli, certo. La stessa cosa del resto accade un po’ in tutta Europa. Il nostro modello e’ Macron, non la Le Pen o la Hidalgo per dirla in francese, insomma”. E chiosa: “Forse con i Cinque stelle vinciamo qualche collegio, forse. Ma perde l’Italia. L’esperienza populista e quella sovranista hanno fallito. Noi lo diciamo da tempo. Piano piano se ne accorgeranno tutti” mentre invece “il Pd dovrebbe provare a vincere le elezioni prendendo la guida del Polo riformista come abbiamo fatto nel 2014 ottenendo il 41%. Oggi mi pare che si stiano accontentando della meta’ di quei voti. E che stiano rincorrendo le stelle cadenti del grillismo. Loro vedono i sondaggi sulla popolarità di Conte e si emozionano: quando si voterà, vedremo quanto queste emozioni si trasformeranno in voti. La stessa scelta di tirar fuori la candidatura di Conte dimostra che sono confusi, ma ce ne eravamo già accorti sullo Zan”. Quanto alla partita del Colle del Quirinale, Renzi dice di voler “dialogare da Meloni e Salvini, fino ai grillini dissidenti: l’arbitro si sceglie insieme. Alle elezioni questo polo riformista dovra’ trovare rappresentanza. Il popolo del buon senso deve farsi polo politico” anche se il leader di Iv ammette che “non e’ facile”.
“Conte sapeva benissimo che avrebbe dovuto correre in un territorio non particolarmente fertile per i 5S e che lì con un avversario forte rischiava di perdere. Poi, magari, avrà fatto anche altri ragionamenti, chiedete a lui”. In un’intervista a la Repubblica il leader di Azione Carlo Calenda annuncia: “Si’, ritiro la mia candidatura. Per me il problema non sussiste più. Non potevo accettare l’idea che un 5S calcasse i sacri Colli, che il Pd abbandoni i propri elettori a un Movimento che in quel collegio alle Comunali ha preso il 5,3 per cento. E’ da tre settimane che Enrico Letta ci prende in giro, dicendo che avremmo parlato. Questo modo di procedere di Enrico dimostra che non c’è nessun Ulivo 2.0 ma solo un Conte 2 riveduto e’ corretto. Li’ sono rimasti i dem, nessuno sforzo di ampliare l’area liberale, democratica e riformista”. Ma Calenda si dice anche pronto a chiedere “al Pd e a una coalizione più larga di incontrarci per decidere chi candidare, in una coalizione senza i 5 Stelle. Nella Capitale i grillini hanno una storia particolare, si sono resi colpevoli di un disastro amministrativo. Non possiamo presentarci ai romani con i 5S al nostro fianco. Purtroppo questa è un’ossessione del Pd: a Lodi il Movimento è al 2 per cento eppure vogliono imporre al sindaco pd il simbolo dei 5stelle…”. Ma il punto o la verità, secondo il leader di Azione, e’ che “nel Pd decide un blocco di potere composto da ex ds romanocentrici e da Franceschini. Amministratori e sindaci non contano nulla, specie quelli del Nord. E questo sistema imbriglia anche Gualtieri. Poi, per ora, fra i democratici sono in tanti a voler fare il presidente della Repubblica, hai visto mai che si inimichino qualcuno. E’ una follia”, conclude. Secondo il professor Sabino Cassese in questa vigilia per il voto sul prossimo capo dello Stato “c’è un eccesso di enfasi che mi preoccupa. Distoglie dalle cose più importanti di cui occorrerebbe occuparsi. La scuola. Le pensioni. La sanità. Il lavoro. E invece tutto ruoto attorno al Quirinale”, dice in un’intervista a la Repubblica il giudice emerito della Consulta. Secondo Cassese, invece, il Quirinale “non è piu’ importante delle politiche che bisognerebbe mettere in campo. La nostra classe dirigente è sempre stata così: attenta agli schieramenti, ai battibecchi, ai ragionamenti, non ai programmi. Un tempo i partiti esprimevano anche grandi politiche. La scuola media unica, la nazionalizzazione dell’energia, la Cassa per il Mezzogiorno, o il servizio sanitario, che ci ha salvato dalla pandemia, sono nati così”. Perciò, a suo avviso, l’enfasi di queste settimane si spiega con “l’obiettiva difficoltà del sistema politico” perchè “quattro partiti hanno un consenso tra il 15 e il 20 per cento, e poi ce ne sono sei tra il 2 e l’8. La frammentazione è aggravata dal fatto che ciascuno è diviso al suo interno e quasi tutti stanno insieme in una maggioranza che, come ha ricordato il presidente Mattarella, non corrisponde ad alcuna formula politica”, tant’è che questo continuo parlare del candidato “è il segnale di un vuoto, sui programmi, sugli indirizzi”.
“Il crocevia era troppo vistoso per non provocare contraccolpi. Consegnare all’ex premier grillino Giuseppe Conte il collegio di Roma dove storicamente vincono a man bassa i candidati del Pd, doveva essere la sublimazione dell’alleanza tra il partito di Enrico Letta e i 5 Stelle”, osserva il notista Massimo Franco sul Corriere della Sera, ma anche “una mezza assicurazione sul controllo di una parte dei parlamentari del Movimento alla vigilia del voto per il Quirinale, se Conte fosse stato eletto alla Camera” perciò in questo caso “era prevedibile la reazione di Carlo Calenda e di Matteo Renzi, due leader di una nebulosa centrista che evocano il patto Pd-M5S come il male assoluto”. Annota Franco che però “la vicenda in sè sottolinea le ambiguità del dialogo tra sinistra e grillismo” e “incrociano sia gli schieramenti per l’elezione del prossimo capo dello Stato; sia quelli elettorali futuri; sia le tensioni striscianti nello stesso Pd e nelle file dei 5 Stelle, coinvolgendo la stessa leadership di Conte”. “Il cosiddetto ‘campo largo’, cioè il nuovo Ulivo coltivato da Enrico Letta, e’ una buona idea che si scontra contro una realtà complicata. Non potrebbe essere altrimenti. Al momento si riduce più o meno all’alleanza con i Cinque Stelle, rappresentati da un leader, Conte, la cui reale influenza resta un mistero, nel senso che non si capisce se e fino a che punto controlli il suo esercito”, è l’incipit della nota scritta da Stefano Folli per la Repubblica. Di conseguenza, prosegue l’opinionista, “dubbi e polemiche sulla candidatura a Roma dell’avvocato pugliese erano inevitabili e hanno avuto l’esito prevedibile: una sconfitta dell’asse che si vorrebbe rafforzare e invece si è indebolito” mentre un “Conte eletto a Roma con i voti dei democratici, in un collegio considerato sicuro, avrebbe sancito che i 5S sono diventati una specie di corrente esterna del Pd”. Ma, osserva Folli, se “un tempo un candidato che si fregia del titolo di ex premier non si sarebbe tirato indietro” oggi “invece l’uomo ha fatto i suoi calcoli e ha realizzato che non si trattava proprio di una passeggiata” ed e’ “facile capire perche’: l’intesa Pd-5S suscita ovvie reazioni avverse in un certo mondo ansioso di dar vita a un aggregato ‘centrista’ come alternativa secca al rapporto privilegiato con il M5S”.
“Il crocevia era troppo vistoso per non provocare contraccolpi. Consegnare all’ex premier grillino Giuseppe Conte il collegio di Roma dove storicamente vincono a man bassa i candidati del Pd, doveva essere la sublimazione dell’alleanza tra il partito di Enrico Letta e i 5 Stelle”, osserva il notista Massimo Franco sul Corriere della Sera, ma anche “una mezza assicurazione sul controllo di una parte dei parlamentari del Movimento alla vigilia del voto per il Quirinale, se Conte fosse stato eletto alla Camera” perciò in questo caso “era prevedibile la reazione di Carlo Calenda e di Matteo Renzi, due leader di una nebulosa centrista che evocano il patto Pd-M5S come il male assoluto”. Annota Franco che pero’ “la vicenda in se’ sottolinea le ambiguità del dialogo tra sinistra e grillismo” e “incrociano sia gli schieramenti per l’elezione del prossimo capo dello Stato; sia quelli elettorali futuri; sia le tensioni striscianti nello stesso Pd e nelle file dei 5 Stelle, coinvolgendo la stessa leadership di Conte”. “Il cosiddetto ‘campo largo’, cioè il nuovo Ulivo coltivato da Enrico Letta, e’ una buona idea che si scontra contro una realtà complicata. Non potrebbe essere altrimenti. Al momento si riduce più o meno all’alleanza con i Cinque Stelle, rappresentati da un leader, Conte, la cui reale influenza resta un mistero, nel senso che non si capisce se e fino a che punto controlli il suo esercito”, è l’incipit della nota scritta da Stefano Folli per la Repubblica. Di conseguenza, prosegue l’opinionista, “dubbi e polemiche sulla candidatura a Roma dell’avvocato pugliese erano inevitabili e hanno avuto l’esito prevedibile: una sconfitta dell’asse che si vorrebbe rafforzare e invece si è indebolito” mentre un “Conte eletto a Roma con i voti dei democratici, in un collegio considerato sicuro, avrebbe sancito che i 5S sono diventati una specie di corrente esterna del Pd”. Ma, osserva Folli, se “un tempo un candidato che si fregia del titolo di ex premier non si sarebbe tirato indietro” oggi “invece l’uomo ha fatto i suoi calcoli e ha realizzato che non si trattava proprio di una passeggiata” ed e’ “facile capire perchè: l’intesa Pd-5S suscita ovvie reazioni avverse in un certo mondo ansioso di dar vita a un aggregato ‘centrista’ come alternativa secca al rapporto privilegiato con il M5S”.