A che punto è la guerra in Ucraina? La Russia è davvero in difficoltà, come valuta il Pentagono? Il Cremlino continua a dire che “l’operazione militare speciale” va secondo i piani, ma è proprio così? Mentre il bilancio dei morti, non solo soldati, vittime civili ucraine, bambini, continua a salire, il tavolo delle trattative per una pace non sembra andare da nessuna parte, perché? Askanews lo ha chiesto a Gabriele Natalizia, professore di Relazioni internazionali all’Università La Sapienza e Coordinatore del Centro Studi Geopolitica.info, e ci ha spiegato che c’è un grande assente: un vero mediatore.
“La guerra è ad un punto di stallo, perché ancora non sono chiari i rapporti di forza sul terreno. Le trattative vanno verso una svolta solo quando c’è qualcuno che chiaramente sta per vincerla e allora impone le sue condizioni, oppure quando entrambi i contendenti si convincono che non possono avere tutto quello che vogliono, non riuscendo ad avere la meglio sul piano militare. Quest’ultima è una valutazione che dovrebbe fare soprattutto la parte russa, mentre la parte Ucraina dovrebbe valutare quando i costi della guerra non sono più sopportabili, e quindi, anche se aggrediti, cedere su quello che si chiede. Questo evidentemente ancora non è chiaro”.
L’avanzata russa è ferma? “Lo stallo sicuramente c’è su Kiev. Doveva essere l’intervento risolutore, invece l’avanzata è ferma. Solo tra 20-25 anni leggendo i documenti negli archivi ne potremo avere la conferma, ma l’obiettivo iniziale della guerra non sembrava essere l’invasione su vasta scala e l’annessione di pezzi importanti dell’Ucraina. Piuttosto sembrava essere un’azione dimostrativa, puntare su Kiev e far capitolare il governo ucraino, e imporre un nuovo governo filo russo. Così come in Ungheria nel 1956. Infatti, dopo la prima settimana di combattimenti si parlava del ritorno in Ucraina dell’ex presidente Janukovych, all’indomani della cui elezione (2004) iniziarono le proteste della rivoluzione arancione e che, una volta ritornato al potere (2010) fu defenestrato dal movimento di Euromaidan (2014). Questa opzione ormai non c’è più. Perché il governo ucraino ha retto militarmente e ha scoperto il bluff russo. Così i russi si sono ritrovati a dover alzare il livello dello scontro, a differenza di quelle che erano probabilmente le loro iniziali intenzioni. Con 150 mila soldati non invadi un Paese di 44 milioni di abitanti, era un’arma di ricatto, che non ha funzionato. I russi hanno avuto problemi di logistica, problemi di comando e controllo, non hanno ottenuto il dominio della sfera aerea. E gli ucraini sono stati più bravi a combattere di quello che ci si aspettava. D’altronde, sono 10 anni che vengono armati e addestrati, sono arrivati pronti a questo appuntamento con la storia”.
Così “l’operazione speciale militare” non è andata secondo i piani, non è stata breve, e le immagini delle città sotto le bombe, ogni giorno da un mese, sono sotto gli occhi del mondo. “Fallita la politica del rischio calcolato di fronte alla resistenza ucraina, la strategia della Russia è dovuta necessariamente cambiare. Lo conferma la rimozione di alcuni vertici della difesa e dell’intelligence russa. Fino ad arrivare ad un dissidio tra il capo di Stato maggiore delle forze armate Valery Gerasimov (recentemente molto defilato) e Vladimir Putin. E soprattutto lo dimostra il fatto che l’avanzata su Kiev è completamente ferma, mentre il fronte principale della guerra si è spostato a Sud. L’obiettivo non è più far cadere il governo di Kiev (che non cade), il nuovo obiettivo è trasformare, almeno per il momento il mare di Azov in una sorta di lago russo, per congiungere i territori conquistati del Donbas con la Crimea. E se le cose procedessero prendessero una piega estremamente favorevole per il Cremlino, creare persino un corridoio che arrivi fino alla Transnistria, una Repubblica indipendentista che ufficialmente fa parte della Moldova, dove c’è un contingente russo. Unire tutto per riprendere e realizzare la costruzione della cosiddetta Novoróssija, Nuova Russia”.
In questo disegno sta la distruzione completa di Mariupol, la città martire sul mar d’Azov, perché “Mariupol si trova proprio nel mezzo, è l’elemento centrale, dell’arco di congiunzione tra il Sud del Donbass e il Nord della Crimea”. Mariupol potrebbe dover pagare il prezzo della sua esistenza agli obiettivi russi, e ne sarebbero conferma anche le deportazioni denunciate dal governo di Kiev. Alzato il livello dello scontro, con la distruzione che aumenta, impossibile pensare di instaurare a Kiev un governo filorusso, con l’odio instillato e la resistenza continua della popolazione. E se i russi non ce la facessero a prevalere militarmente e imporre la loro pace, quale potrebbe essere lo scenario? “Quello afghano degli anni 1979-1989. I sovietici invasero l’Afghanistan per difendere un governo fantoccio e si trovarono di fronte ad una resistenza molto motivata, che conosceva bene il territorio, era armata da partner esterni, dagli Stati Uniti al Pakistan passando per altri Paesi arabi. Alla fine la vittoria per i sovietici diventò troppo costosa per essere razionale raggiungerla. E da qui partì quella delegittimazione della potenza sovietica che la condusse verso il suo collasso. Prima del pantano afghano erano ben chiare nella mente di tutti i Paesi dell’Europa dell’est Budapest 1956 e Praga 1968, ovvero ‘i carri armati russi sono invincibili’.
L’Afghanistan negli anni 80 ha dimostrato che (se bene armati) chi combatte contro i sovietici può vincere. Questo è quello che potrebbe succedere in Ucraina: una guerriglia che dura anche anni e che porta progressivamente ad una delegittimazione interna ed internazionale definitiva della Federazione Russa e del potere di Putin”. Ma l’Ucraina è nel cuore dell’Europa, può essere tollerato un conflitto di lungo termine? E le sanzioni economiche imposte alla Russia sarebbero così inefficaci? Nel breve periodo la Russia ha dimostrato di poterle reggere, e sebbene niente è irreversibile nella storia umana, neanche quell’idea di economia globalizzata che ha preso forma negli anni 90 a cui siamo affezionati, potrebbe non essere poi così conveniente ritornare al sistema dei blocchi contrapposti in stile Guerra Fredda. Con la Russia legata a doppio filo alla Cina. Proprio la Cina potrebbe non essere (economicamente) interessata al ritorno dei blocchi, per quanto ora in una posizione diversa. Ha prosperato con la globalizzazione e l’interscambio Occidente-Oriente e non rinuncerebbe a tutti i partner occidentali. E qui c’è un distinguo da fare: se gli Stati Uniti sono più netti nel forzare la Cina ad una scelta tra il sostegno alla Russia e l’Occidente, non così decisi sono i partner europei. Prova ne è la sottoscrizione del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) siglato il 30 dicembre 2020 tra ‘Unione Europea e la Cina, proprio nel periodo “finestra” dell’amministrazione Usa, qualche settimana prima dell’Insediamento di Biden.
Nella posizione dei Paesi europei di fronte alla Cina e di fronte alla stessa Russia, quando si parla di approvvigionamenti energetici, di cui non possono fare a meno, sta la debolezza delle sanzioni e la leva di Putin. Un altro pantano, che rivela come, stando così le cose, sulla via verso le trattative di pace pesa un grande assente: un vero mediatore. “Per uscire dal pantano – spiega Gabriele Natalizia – da un lato si devono chiarire i rapporti di forza sul campo, dall’altro deve emergere un mediatore serio. E un mediatore serio è solo un grande Paese che è capace di compensare le rinunce che fanno i soggetti seduti intorno al tavolo con delle sue concessioni. Quindi non può essere l’Italia, la Germania o la Francia, o tutta l’Ue (ammesso che sia in grado di mantenere una posizione unitaria fino in fondo) possono esserlo solo le grandi potenze. E le grandi potenze in questo momento storico sono due: Stati Uniti e Cina. Del resto lo ha detto chiaramente ad inizio crisi il segretario del consiglio di sicurezza russo Sergey Patruschev: ‘per risolvere la crisi dobbiamo parlare con gli americani'”.
E lo stesso Xi Jinping avrebbe “invitato” il presidente Usa a intervenire, anche perché “spetta a chi ha legato il sonaglio al collo della tigre il compito di toglierlo’. Ma gli americani hanno scelto un’altra strada, resa evidente dalle parole dirette di Biden verso Putin “criminale di guerra”: “Gli americani hanno assunto un atteggiamento di confronto così duro che non sono un soggetto che in questo momento può mediare, perchè le parti in causa devono percepire il mediatore come terzo. Così gli Usa si sono chiamati fuori dal ruolo di mediatore”. E la Cina? “Chiarito che secondo Xi non sarebbe compito cinese togliere il sonaglio alla tigre, la Cina potrebbe comunque avere interesse a mediare, per tutelare il modello di globalizzazione economica in cui prospera e per accreditarsi, al posto degli Usa, come superpotenza capace di un ruolo tale.
La Cina ha l’opportunità di far vedere al mondo che può essere il mediatore, il risolutore, così come un tempo facevano gli americani. Ma questo sarebbe il suo primo tentativo di sostituzione, in un quadro complesso e incerto e se la Cina fallisse ne subirebbe un grande danno d’immagine. Così sta ancora alla finestra, proprio perché ancora non è chiaro dove sia la maggiore convenienza. E così c’è un grande problema: tra Ucraina e Russia manca il vero mediatore. È comunque importante che si mantenga il dialogo, anzi il fatto che le parti si siano parlate fin dall’inizio e non smettano di parlare è l’unica cosa che dà un segnale positivo. Ma nell’assenza (o nell’attesa) del mediatore l’unica risposta può arrivare dal campo militare, dai rapporti di forza sul territorio. E questo però ha un caro prezzo: più morti, più vittime e distruzione”. E se la guerra tanto crudele quanto reale in Ucraina ci ha tristemente dimostrato che nella storia umana non c’è un continuo progresso, verso l’armonia (“l’armonia fu un abbaglio degli anni Novanta, dovuto al fatto che gli Stati Uniti erano così non-sfidabili da far convergere le altre potenze sui loro interessi”), ora per far sì che Putin possa almeno tornare indietro e inizi una de-escalation occorre che possa tornare a casa con almeno una parvenza di vittoria.
Sebbene vittima, l’Ucraina potrebbe scegliere di concedere qualcosa: “Il riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea – che interverrebbe a ufficializzare una situazione de facto – lo statuto speciale al Donbass, quello che sostanzialmente richiedevano gli accordi di Minsk, rinunciare all’adesione alla Nato, ma chiedere che la Russia non interferisca con l’adesione all’Ue”. Ed è per questo che gli ucraini continuano a combattere, sanno che devono comunque arrivare forti al tavolo delle trattative, e non cedere le città simbolo, sebbene allo stremo. Il tavolo delle trattative riflette la situazione magmatica sul territorio, ancora aperta, ma Mariupol, Odessa o Kharkiv devono resistere. Dall’altro lato, i russi perso il bluff hanno usato la forza militare ma non l’hanno fatto bene: quello che sta succedendo in Ucraina dimostra che non sono una potenza militare pari agli Stati Uniti e alla Repubblica Popolare Cinese, se la forza militare russa resta impantanata in Ucraina, è un danno al prestigio ma anche alla capacità di esercizio del potere di Putin, che adesso probabilmente sta andando avanti perché non può tornare indietro. Serve una via di uscita.
(di Giovanna Turpini)