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Partiti: Prove di intesa in assemblea dem per il “nuovo Pd”

Per Enrico Letta è il “primo giorno di primavera del nuovo Pd”, è “l’inverno che finisce in anticipo”. L’assemblea costituente democratica approva il nuovo manifesto e sancisce il ritorno di chi era andato via ai tempi di Matteo Renzi per fondare Articolo Uno. Certo, è singolare che “il nuovo Pd” inizi nel giorno della nascita del Pci, esattamente 102 anni dopo, ma del resto il percorso non è ancora concluso, le primarie per il nuovo segretario saranno il 26 febbraio e in tanti, a cominciare da Stefano Bonaccini, chiedono che la fase costituente non si chiuda qui.

La mediazione voluta fortemente da Letta regge, anche se restano parecchi retropensieri tra i big del partito, con Andrea Orlando e Giuseppe Provenzano che ribadiscono le loro perplessità e il presidente dell’Emilia Romagna che non considera affatto definitivo il manifesto votato oggi. Di fatto, non si chiude qui il braccio di ferro tra chi – come la sinistra – chiede che il Pd cambi nettamente rotta rispetto al percorso seguito in questi anni e chi – come Bonaccini – rivendica invece proprio lo spirito originario del partito. Non a caso il compromesso è stato possibile solo con una acrobazia che qualcuno, come Emanuele Felice, membro del comitato costituente, non manca di sottolineare: “Confesso che non ho capito, seriamente. Ma da oggi il Pd ha due manifesti dei valori invece di uno?”. Perché proprio questo è il punto di equilibrio: l’assemblea vota il nuovo manifesto, ma al tempo stesso resta in vigore quello del 2007.

Letta lo spiega con eleganza, citando due dei ‘padri’ del manifesto di 16 anni fa: “Sarebbe stato sbagliato oggi metterci a fare le pulci al lavoro di Scoppola e Reichlin”. Ma è un dato di fatto che il ‘doppio manifesto’ sia un modo per evitare pericolose spaccature proprio nel momento in cui prende forma il nuovo partito e non è un caso che nei vari interventi le diverse prospettive vengano ribadite dai principali protagonisti. Il primo ad esserne consapevole è proprio il segretario uscente, che nel suo intervento richiama con garbo tutti al valore dell’unità. “Ai quattro candidati mi permetto di suggerire di cambiare una cosa fondamentale: il segretario o la segretaria del nuovo Pd non può passare la sua giornata a mettere tutta la sua energia nella composizione di equilibri interni”.

Letta ricorda che il Pd non è un partito personale, “il capo non è il centro di tutto, siamo una comunità, quindi abbiamo la responsabilità di stare insieme, di essere uniti”. Concetto che ripete più volte, anche citando i risultati della ‘Bussola’, la consultazione tra i militanti svolta in queste settimane: “Emerge una richiesta di nettezza delle nostre posizioni, di determinazione del nostro lavoro, di valorizzazione del territorio e una forte richiesta di unità, di lasciar da parte le divisioni”. Invito che oggi almeno in parte viene raccolto. I toni restano pacati, gli accenni polemici sono sfumati, anche se appunto nessuno rinuncia a fissare i propri paletti, a cominciare dalla discussione sul nome del partito.

Giuseppe Provenzano, dopo il botta e risposta di ieri con Bonaccini, definisce “un po’ esagerata la polemica su questo tema”. E anche sul manifesto ha qualcosa da dire: “Reichlin e Scoppola certo non sarebbero stati d’accordo con una concezione coranica dei nostri documenti. Nessuno voleva fare ‘cancel culture’, semplicemente avevamo bisogno di un testo che ponesse il nostro partito in sintonia con le sfide che ci attendono”. Ora, aggiunge, “i candidati hanno un compito: capire come concretamente far avanzare i principi affermati nel nostro manifesto”. E anche Andrea Orlando, dopo aver riconosciuto il “passaggio importante di oggi”, non rinuncia a rilanciare: “Non è sufficiente, ma è importante”. Il punto, insiste, è superare la “doppia anima del Pd”, ovvero il dualismo tra chi ha una “visione apologetica dell’esistente” e chi invece immagina un “nuovo modello di sviluppo”.

Lo stesso Roberto Speranza spiega che c’è ancora del lavoro da fare: “Oggi abbiamo fatto un primo pezzo importante di strada ma che la strada non è completata, nel dispositivo che approveremo ci sarà scritto che la costituente deve continuare, deve andare avanti e continuare a coinvolgere le persone”.

I quattro candidati si prendono un pò più di spazio degli altri, sforano tutti i 6 minuti di intervento imposti dalla presidenza dell’assemblea. Paola De Micheli chiede di eliminare il “modello verticistico, siamo di sinistra, le persone da noi si aspettano di più di democrazia interna”. Gianni Cuperlo prova a far leva sull’orgoglio Pd: “So che in questo momento tra di noi non ci sono ne Sturzo né Gramsci, né Tina Anselmi né Nilde lotti. Però non siamo neanche la reincarnazione di Brancaleone da Norcia. Sarà anche giusto fare ironia quando sbagliamo. Però credo che tutti noi dobbiamo chiedere rispetto per la comunità del Pd”. Poi, invita ad avere un orizzonte un po’ più largo, che non si limiti ad una pragmatica lista di soluzioni concrete ma che offra una visione di società, una prospettiva di riferimento: “Il Pd deve recuperare la sua idealità. A noi non serve oggi un nuovo programma di governo, non si voterà tra un mese. A noi serve di nuovo la potenza di un pensiero sul tempo che ci è toccato in sorte”. Ma è soprattutto ascoltando Elly Schlein e Bonaccini che appare chiara la “doppia anima” che cita Orlando. Per la deputata “Dobbiamo sceglierci un’identità e un blocco sociale di riferimento. Non si può essere tutto e il contrario di tutto, altrimenti si finisce per non rappresentare più nessuno”.

Il suo rivale, invece, richiama uno schema simile a quello di Veltroni e non a caso cita anche la “vocazione maggioritaria” che, precisa, “non vuol dire andare da soli, non è autosufficienza. Per me significa rivolgersi a tutto il paese, con le nostre idee, non regalando i voti di sinistra ai 5 stelle e quelli moderati al terzo polo”. La Schlein insiste: “Dobbiamo tenere insieme questa comunità larga ma senza rinunciare a una direzione e a una visione chiara, comprensibile alle persone. Dobbiamo ricucire le fratture con i mondi di riferimento che non si sentono più rappresentati: lavoro, accoglienza, terzo settore, scuola”. Il lavoro lo cita anche Bonaccini, ma precisando: “Un partito è laburista non se il lavoro lo scrive nei manifesti o nel nome, ma se riesce a dare rappresentanza alle persone che lavorano. Oggi nessuno ha citato l’impresa, ma l’impresa è fondamentale per creare lavoro”. E, aggiunge, è meglio parlare di “lavori”, perché non ci si può limitare a rappresentare solo il lavoro dipendente classico. Due visioni molto diverse, appunto. Per ora si accontentano del compromesso raggiunto. Il secondo tempo della partita sarà dopo le primarie, in quel momento si vedrà se l’invito all’unità di Letta reggerà anche alla prova del risultato del congresso, allora si capirà se chi perde si sentirà ancora a casa propria. Il segretario mantiene il suo ruolo di arbitro, non dice per chi voterà: “Siete stati tutti e quattro convincenti, faccio fatica a scegliere chi votare”. Professa ottimismo, dicendo che il Pd ha subito un “tentativo di sostituirci, ma è fallito”. Si concede solo qualche piccolo sfogo, accennando alle “amarezze” che terrà per sé. Adesso tocca ai candidati alla segreteria, sta a loro portare davvero “la primavera” nel Pd, evitando il rischio di gelate.

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