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Editoriale

Per il diritto civile di diseredazione: libertà neopersonologica e autonomia nel testamento neolibertario

Uno dei diritti civili che in Italia è stato spesso avversato, in un’ottica stranamente buonista che ha interpretato in modo inopportuno la dottrina del perdono radicata nell’eterogenea ed enciclopedica cultura cristiancattolica, è il diritto a diseredare qualcuno dei propri successibili legittimi. Il diritto civile di diseredazione, nel cosciente e libero esercizio della propria capacità di testare, è stato vittima di una incomprensione rispetto alla funzione neutralmente regolativa insita nello strumento testamentario. Il testamento, stando al dettato legislativo testuale di cui all’art. 587 del codice civile, serve per disporre dei propri beni per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Esso serve quindi non solo per attribuire ma anche per escludere, e la volontà mortis causa può manifestarsi non solo con un carattere positivo-attributivo ma anche negativo-ablativo.

La giurisprudenza italiana è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’ammissibilità o non ammissibilità della clausola diseredativa, ossia della clausola testamentaria in cui il testatore dispone di voler escludere, dal quadro dei propri successibili, uno o più soggetti che altrimenti sarebbero ex lege vocàti a succedergli mortis causa nella titolarità dei rapporti patrimoniali. Il contenuto di un testamento può anche essere meramente o puramente diseredativo, quando il testamento – anche olografo – non contiene disposizioni di altro tipo: quando si ha una diseredazione senza alcuna attribuzione, nemmeno implicita.

Le sentenze, sia di merito che di legittimità, forniscono nel tempo soluzioni di diverso orientamento e di differente impianto logico. Il legislatore del codice civile previgente (del 1865) escluse volutamente l’istituto in commento perché da un lato ritenuto immorale dalla allora dominante dottrina del perdono e, d’altro canto, poiché riteneva che a farne le veci fosse l’istituto della indegnità a succedere, confondendo evidentemente il carattere tutto privato del regolamento negoziale ablativo-destitutivo della diseredazione, con la matrice pubblicistica e tassativamente tipizzata della indegnità.

L’esclusione della diseredazione dal codice del 1865 tracciò la strada all’altra omissione, quella del codice del ’42, attualmente in vigore.

Si sono susseguite numerose pronunce dalla fine del XIX secolo fino ai giorni nostri; una rilevante pronuncia giurisprudenziale in materia è quella della Sezione II della Corte di Cassazione con la sentenza n. 8352 del 25 maggio 2012. La Corte ha affermato che la mancanza in un testamento di una disposizione attributiva non equivale all’assenza di una valida manifestazione di volontà, bensì ad una specifica espressione volitiva, idonea di per sé ad integrare la funzione negozialtestamentaria di regolamentare e orientare la successione post mortem del disponente. 4

Il nostro ordinamento giuridico presta una tutela forte al diritto del legittimario a succedere nella quota di legittima (o di riserva), in virtù di concezioni novecentesche – figlie del tempo di entrata in vigore del codice civile vigente – inerenti al solidarismo di stampo familiaristico, che garantisce loro una vera e propria transtitolatirà necessaria nei beni interessati dalla successione ereditaria del loro congiunto dante causa.

Una disposizione testamentaria volta a diseredare un soggetto qualificato quale legittimario non è ritenuta valida ed efficace nel nostro panorama giurisprudenziale, e nemmeno secondo le affermazioni pretorie della nota sentenza n. 8352 del 2012.

Per una parte della dottrina, la disposizione testamentaria volta a diseredare un erede legittimario sarebbe nulla (quindi radicalmente e irrimediabilmente invalida) perché contraria a norme imperative, quali l’art. 457, comma 3, c.c., il quale sancisce che le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari. Tale articolo è stato valutato e ritenuto il prodotto della discrezionalità del legislatore ordinario nell’adempiere alla riserva di legge ordinaria in tema di limiti della successione testamentaria, ex art. 42, comma 4, Cost.

Bisogna chiedersi, però, se il terzo comma dell’art. 457 c.c. sia effettivamente una norma qualificabile come imperativa.

Ciò avrebbe necessarie implicazioni anche sulla estensione del raggio di incidenza dell’art. 28 della legge notarile (L. n. 89 del 16 febbraio 1913), il quale afferma, al punto primo, che il notaio non può ricevere atti se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all’ordine pubblico.

La tutela più adeguata da offrire in capo ai soggetti legittimari diseredati, quindi, risulta essere quella della possibilità di agire in riduzione per garantirsi la quota di legittimità; ma, qualora il legittimario diseredato rispetti e accetti la volontà del de cujus, e lasci prescrivere il termine entro cui agire in riduzione, il testamento diventa inattaccabile anche nella parte ove si palesa la clausola diseredativa.

Può sembrare triste la diseredazione, e magari in tali casi in effetti lo è, ma il diverso istituto – con funzione più pubblicistica e non solo privatistica – della indegnità a succedere non riesce a tutelare e garantire la libertà del testatore nel suo pieno esplicarsi.

Ho avuto modo di trattare dal punto di vista tecnico la questione diseredativa in varie delle mie pubblicazioni di carattere giuridico. Nelle mie monografie “La diseredazione tra giurisprudenza e problemi operativi. Breve vademecum per gli studenti e per gli operatori del mondo forense e notarile” (gennaio 2016), e “Testamento e autonomia. Norme, giurisprudenza, critiche dottrinarie e filosofia” (ottobre 2018), ma anche in “Elettività negoziale soggettiva ed oggettiva tra prelazione, ‘disprelazione’ e destinazioni proprietarie” (gennaio 2018). Ed anche in alcuni dei miei articoli, come in “La diseredazione” (2014), “Exheredatio ed evoluzione della libertas testandi” (2015), “Attività negoziali a causa di morte e testamento” (2015), “Autonomia testamentaria: disciplina, fenomenologia, ermeneutica” (2015), “Aspetti problematici delle clausole testamentarie” (2015), “Dottrine sull’autonomia negoziale e testamento” (2015), “VBI TESTAMENTUM, IBI LIBERTAS: VBI LIBERTAS, IBI NOVA EXHEREDATIO” (2015), “Alcuni autorevoli pareri sulla destituzione testamentaria” (2015).

Con una rilevante riforma del 2012, di fronte all’ultima parte dell’art. 448-bis c.c., comunque, si è parlato di una forma tipica di diseredazione, proprio come si è salutato questo punto della riforma del 2012 quale elemento di novità enorme, pur nella marginalità dell’ipotesi regolata. Una norma dettata in tema di diritto ed obbligo agli alimenti ha introdotto una piccola rivoluzione in materia di successione testamentaria. Ciò in quanto la disposizione codicistica introdotta, interpolando l’art. 448 c.c., oltre a sollevare il figlio dall’obbligazione legale di prestare gli alimenti nei confronti del genitore interessato da una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale, ha sancito la possibilità di escludere dalla successione il genitore che abbia commesso fatti non integranti le fattispecie tassativamente elencate nell’art. 463 c.c. sui casi di indegnità a succedere. Tuttavia ciò non basta.

La diseredazione è un diritto civile che aspetta di essere riconosciuto inequivocabilmente e di essere compiutamente disciplinato dal legislatore italiano, in adesione alla libertà testamentaria in uno Stato laico-liberale. Dopo le tantissime argomentazioni di carattere tecnico-giuridico e scientifico, nella mia monografia dedicata integralmente alla questione diseredativa, e riprendendo un mio precedente articolo, ho avuto modo di scrivere quanto segue: “Il testamento, così, diviene uno strumento di governo di una sfera fenomenologica giuridicamente rilevante, di un piano patrimoniale connesso alla persona, e quindi, in fin dei conti, di una dimensione dell’essere che si fa (più) libertaria, in una libera e sempre revocabile ridefinizione volizionistica del dover essere privatistico-autodeterminazionistico. Non si tratta di voler edificare, pseudo-nietzschianamente, uno übertestament, ma di rendere pienezza al contenuto oggettivo implicato nel senso delle terminologie legislative per come esse si presentano effettivamente all’interprete”. Se oggi si dà rilievo al significato neutrale del termine “disporre” che viene utilizzato dal legislatore nell’art. 587 c.c. per definire la funzione del testamento, occorre comunque avere una disciplina giuridica certa, espressa, non lacunosa e che aumenti il grado e il livello di certezza del diritto, in uno Stato di diritto liberalcostituzionale quale il nostro.

È auspicabile un modello di testamento che rispetti a trecentosessanta gradi la persona, sia quando si trova ad essere eventuale destinataria di speranze interiori nella ricezione di una eredità (mera speranza di per sé non giuridicamente rilevante quando il testatore è ancora in vita), sia quando la persona si trova ad esercitare nei panni di testatore capace d’intendere di volere la propria autonomistica libertà testamentaria.

È auspicabile un modello di testamento che sia laico, neoliberale, neutrale e non figlio di eccessive restrizioni statocentriche; un testamento neolibertario, e quindi più equilibrato, capace di spostare il proprio asse assiologico di ratio verso i versanti neopersonologici del neocostituzionalismo.

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