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Editoriale

Femminismo ed evoluzione: dialogo con una instancabile femminista

La società contemporanea non può non dirsi pronta ad affrontare adeguatamente la questione della violenza di genere, ed in particolare il dramma delle violenze su più piani nei confronti delle donne. Non bastano le cantilene del politically correct per contrastare le asfissianti mentalità che ancora opprimono e reprimono molte donne: non soltanto nei Paesi vittime di dominanti ideologie retrograde che non si sono confrontate nei secoli scorsi con l’avanzare degli illuminismi e dei femminismi, ma anche nelle nostre fette d’Occidente.

Dialoghiamo pertanto con Lia Caprera, una donna che sulle tematiche del femminismo e del contrasto alla violenza sulle donne ha tanto operato, e opera ancora, instancabilmente.

Lia è attivista femminista sin dall’inizio degli anni ’70, socia fondatrice e rappresentante legale dell’associazione “Io Donna”. È pensionata da qualche mese, dopo aver svolto diversi lavori: lavoratrice stagionale nel settore marittimo per i collegamenti con la Grecia, operatrice sociale nel Centro Sociale conto l’emarginazione giovanile di Brindisi e per 36 anni prima conduttrice, e poi capotreno in Trenitalia.

1) Lia, quando e come è iniziato il tuo attivismo da femminista? Quali battaglie hai portato avanti nel corso dei decenni? Ci sono degli episodi in particolare che ti hanno spinta ad esporti per i diritti delle donne?

Ero studentessa dell’Istituto Professionale Femminile e all’età di 16 anni cominciai ad avvertire un disagio esistenziale, che derivava in massima parte dal confrontarmi con un contesto familiare e sociale che riservava alle ragazze divieti, limitazioni e controlli. Eravamo imprigionate in ruoli familiari e sessuali imposti rigidamente dalla società. Cominciai a frequentare le riunioni di un collettivo femminista di Brindisi, a leggere riviste e libri femministi. Nel 1973 noi studentesse organizzammo una manifestazione per l’8 marzo, giornata internazionale di lotta delle donne, dove denunciammo pubblicamente tematiche riguardanti la nostra vita e il nostro corpo.

In quegli anni la pratica politica nei collettivi femministi di sole donne e nei gruppi di autocoscienza era quella del “partire da sé” e dall’affermazione che “il personale è politico”. Così ogni donna aveva la possibilità di raccontare il proprio vissuto di oppressione, violenza, discriminazione e dare senso politico ad esperienze che fino ad allora non erano mai entrate nello spazio pubblico: dalla negazione della sessualità femminile, all’aborto clandestino; dalla contraccezione vietata, alla maternità imposta come “destino naturale”; dalla violenza domestica alla dipendenza economica dall’uomo nella famiglia; dalla divisione sessuale del lavoro, alle disuguaglianze salariali, e tanto altro. Inoltre, analizzammo la funzione e il valore del lavoro domestico e riproduttivo, che la retorica patriarcale chiamava “lavoro d’amore”, mentre era ed è imposizione di un lavoro gratuito sulla base del quale si regge tuttora l’economia capitalistica.

In questo modo costruimmo un grande movimento femminista, ricco di differenze, nelle grandi e nelle piccole città. Portammo avanti la lotta per l’aborto libero, sicuro e gratuito, per l’accesso alla contraccezione, per una pratica della salute che avesse al centro l’autodeterminazione della donna, per il riconoscimento giuridico della violenza maschile sulle donne come reato contro la persona, per il cambiamento dei processi di violenza sessuale, che giudicavano la vita e i comportamenti delle vittime e non gli autori delle violenze stesse (vedasi il documentario Processo per stupro, 1979). Nel contempo i gruppi femministi sviluppavano metodologie e ricerche sulle diverse forme di violenza sulle donne e gestivano in modo autonomo centri antiviolenza e case rifugio. Questo sapere metodologico e i contributi delle studiose femministe sono stati alla base anche del cambiamento delle norme internazionali (la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza nei confronti delle donne, 1993; e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, 2011).

In Italia ci sono voluti oltre 20 anni di impegno costante del femminismo per arrivare all’approvazione della legge n. 66/1996 sulla violenza sessuale. E solo nel 1981 si giungeva all’abrogazione dei “delitti d’onore”, quindi del “matrimonio riparatore” che fino ad allora aveva permesso di estinguere il reato di violenza sessuale, e si eliminavano i trattamenti di favore penale riservati a chi commetteva omicidio o lesioni personali per “causa d’onore”.

Parliamo di lotte che raggiunsero obiettivi importanti, in qualche caso minacciati da referendum abrogativi che non passarono (nel 1974 sul divorzio e nel 1981 sull’aborto) o erosi nel corso del tempo dalle politiche patriarcali e liberiste che riducono diritti e spazi di libertà faticosamente conquistati dalle donne. Oggi in un contesto nazionale ed internazionale mutato rispetto al recente passato, il movimento Non Una Di Meno, partito dall’America Latina e arrivato in Europa e nel nostro Paese, è protagonista di una nuova ondata di lotte femministe e transfemministe”.

2) Cosa vuol dire essere femministe per le donne, e femministi per gli uomini, oggi? Il nome “Io Donna” è indicativo di un ego al femminile che attraverso percorsi individuali e collettivi può prendere coscienza del proprio sé biopsichico e sociale?

Abbiamo costituito l’associazione “Io Donna” nel 1995 dopo un lungo e variegato percorso di esperienze femministe realizzate a Brindisi. Nel 1980 approdammo all’esperienza del Centro Sociale contro l’emarginazione giovanile, dove costituimmo il Centro di Documentazione Donna. Risale a questo momento l’idea di dotarsi di strumenti a sostegno delle donne che subivano violenza. Iniziammo con il servizio di consulenza giuridica gratuita. Successivamente intraprendemmo un percorso di formazione per imparare a gestire la relazione di aiuto tra donne. Infine, nel 1991 attivammo la linea telefonica Io Donna per non subire violenza, tel. 0831-522034. Scegliemmo la denominazione “Io Donna” per dare centralità alla soggettività femminile. Infatti, gli obiettivi prioritari dell’associazione sono: a) la promozione dell’autodeterminazione della donna in tutti gli ambiti della vita sociale; b) l’affermazione sostanziale dei suoi diritti di cittadinanza; c) la prevenzione e il contrasto della violenza patriarcale, della violenza maschile sulle donne e di genere, del femicidio/femminicidio”.

3) Di cosa vi occupate nei Centri Antiviolenza e quali problematiche su più fronti riscontrate?

Il centro antiviolenza è uno spazio libero e sicuro dove le donne parlano delle proprie esperienze, ricevono un ascolto empatico e non giudicante, sono accompagnate e sostenute nel percorso individuale di fuoriuscita dalla violenza nel rispetto della riservatezza e delle scelte individuali; partecipano a gruppi esperienziali per elaborare i vissuti di violenza. Le operatrici e le professioniste offrono gratuitamente consulenza psicologica, legale e orientamento ad altri servizi. Il centro antiviolenza, quando è possibile, offre alle donne opportunità di formazione professionale per accrescere l’autonomia economica. La violenza domestica è prevalente anche tra le donne che si rivolgono al centro antiviolenza “Io Donna”. Il percorso è lungo e pieno di ostacoli di ordine culturale, sociale ed economico, ma la consapevolezza tra le donne cresce sempre più e anche il desiderio di vivere una vita libera dalla violenza. Il centro antiviolenza è un luogo politico dove riflettiamo sulle azioni necessarie a far avanzare socialmente la lotta contro la violenza maschile e di genere, per questo aderiamo all’associazione nazionale D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, formata da 80 centri antiviolenza e case rifugio, che fornisce supporto, formazione, promuove iniziative politiche e interlocuzione con le istituzioni a vari livelli, anche internazionale attraverso la rete WAVE (Women Against Violence in Europe), network femminista che promuove i diritti umani delle donne e delle bambine nell’Unione Europea, e partecipiamo al movimento Non Una Di Meno a livello cittadino e nazionale”.

4) La triade del genere, dell’etnia e della classe sociale è un’acquisizione sistematica nonché dialettica delle riflessioni sui movimenti per i diritti civili e di liberazione delle donne. Come viene incarnata questa riflessione dalla giovane rete femminista transnazionale “Non una di meno”?

La triade genere, etnia e classe sociale costituisce un’intersezione indispensabile per far crescere le lotte femministe senza gerarchizzare le forme di oppressione. La decostruzione dei generi è divenuto un processo dinamico che vede una pluralità di soggettività ridefinire le identità di genere e gli orientamenti sessuali, ampliando la critica al patriarcato e all’eterosessismo. I nessi tra sessismo, razzismo e appartenenza alle classi sociali più povere e sfruttate sono evidenti in ogni circostanza e per questo qualunque sia la lotta che stiamo conducendo, dobbiamo agire per fermare discriminazioni, abusi, violenze e sfruttamento”.

5) Donne e questione sociolavoristica: anche sulla base del tuo vissuto di donna lavoratrice da poco in meritata pensione, quali problemi rilevi, e quali prospettive?

Il mio vissuto sul lavoro è stato abbastanza conflittuale, perché ho lavorato in un settore a prevalenza maschile, cioè nel settore dei trasporti, prima nel settore del trasporto marittimo e poi in quello ferroviario, dove la maggioranza della forza-lavoro è maschile. La presenza femminile non era considerata – diciamo – ‘normale’, nel senso di interazione tra colleghi, per esempio, in senso orizzontale ma anche in senso verticale. Io ho iniziato a lavorare nella metà degli anni Ottanta. Allora la presenza femminile era marginale. Il numero di donne presenti nel settore ferroviario è aumentato, e questa presenza ha anche cambiato il modo di rapportarsi sia all’interno dell’azienda che nel rapporto con la clientela. Questa trasformazione è stata il frutto di una lotta che abbiamo dovuto affrontare, anche sul piano del linguaggio. Negli ambienti di lavoro per le donne ci sono state e ci sono ancora valutazioni sull’aspetto fisico, sulla corrispondenza a canoni femminili tradizionali, e si ricevono anche molti giudizi e insulti che feriscono profondamente”.

6) Pensi che questa situazione sia molto diffusa?

È diffusa, sul piano del linguaggio, sul piano della valutazione sull’aspetto fisico delle donne. All’inizio c’erano molti pregiudizi sul piano della competenza. Ora sul piano della competenza non più perché è evidente a tutti che ci sono tante ragazze molto preparate”.

7) Quali prospettive per evolverci?

Io spero che cresca la presenza femminile nei settori tradizionalmente maschili, e sarà un fatto positivo”.

8) E la donna nelle istituzioni?

Deve aumentare la presenza delle donne anche nelle istituzioni, dove non c’è una presenza equa, sia numericamente sia sul piano delle responsabilità. Più in alto si va, nelle istituzioni e anche nelle aziende, e meno presenza femminile c’è”.

Ti ringrazio per la disponibilità al dialogo, elemento imprescindibile per ogni edificante prospettiva evolutiva in società.

Ogni donna vittima di abusi ha il dovere di non arrendersi mai, per se stessa e per tutte e tutti; ha il dovere di far fruttificare il proprio pensiero nella coscienza autodeterminazionista e nell’adeguata azione legale per prevenire o contrastare e sconfiggere le violenze: per uscire dal proprio dramma, per ritornare libera, unica e diversa, come il giorno in cui libera nacque.

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